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La mia serata a Wolfsburg in mezzo agli ultras del Napoli

La mia serata a Wolfsburg in mezzo agli ultras del Napoli

A differenza della precedente sfortunata trasferta a Dortmund, stavolta avevo deciso di scegliere il settore ospiti. Avevo ritenuto che questa impresa fosse più ardua e richiedesse una dedizione totale ed incondizionata alla causa: nessun contatto con qualsivoglia forma di vita, evento umano o naturale al di fuori del Volkswagen Arena, e due ore nelle quali il napoletano dovesse tassativamente essere l’unico idioma accettato per qualunque comunicazione tra esseri senzienti. Ivi compresi gli steward. Che, invero, mi hanno guardato alquanto strano quando ho chiesto: “Addò m’aggia assettà?”

Come previsto, mi sono ritrovato nel mezzo del nutritissimo gruppo di ultras. Ora, è chiaro che io e il mondo del tifo organizzato parliamo due lingue diverse, e molto spesso ci riferiamo a concetti molto distanti che pure in apparenza possono sembrare identici. Ad esempio: se ho comprato, molto salato, un biglietto con un numero di settore, fila e posto, mi aspetto di poter occupare proprio quello, senza dover lasciare il seggiolino ad un gruppo che scivola compatto in centinaia sugli spalti, a mo’ di valanga. Ma un sano senso pratico mi aveva suggerito di sorvolare, una volta entrato, su questi piccoli particolari. Per concentrarsi esclusivamente sul quarto di finale, e sul viso di quei giocatori e quell’allenatore che posso ammirare così di rado.

Ciononostante, personalmente considero quello di ieri un buon esperimento di convivenza tra me e gli ultras. Con alcuni tratti simbolici interessanti. Un esempio ne è la gigante bandiera azzurra col viso di Maradona che mi ha sventolato davanti per novanta minuti occludendomi la visuale – come non vederci una simbologia archetipica -, che ho comicamente schivato percorrendo chilometri sui sediolini retrostanti, ma che non ha mancato di impigliarsi nella montatura dei miei occhiali e sfilarmeli per ben due volte, catapultandoli quasi come una cometa tra i tifosi e procurando al sottoscritto e alle sue diottrie una cecità istantanea terrificante ma anche splendente, certo con elementi fantozziani ma credo anche molto simili ad una crisi mistica, una confusa visione profetica. (Tra parentesi, due volte sono volati via gli occhiali nel primo tempo, e due volte il Napoli ha bucato la porta a pochi metri da noi, per cui sono stato quasi tentato dal chiedere agli sbandieratori di sfilarmeli almeno un’altra volta nella ripresa, me consenziente. Ma non è stata necessario).

Eppure non ho potuto fare a meno di notare che quello spaccato di vita sociale, pur contenendo tutte le strutture che tendo a combattere – il cameratismo, il senso di identità nel gruppo, l’autoesaltazione – si fonda sul lavoro attivo dei suoi partecipanti. Un lavoro che non condivido, ma del quale non posso onestamente negare l’esistenza. Molte delle voci che i telespettatori hanno ascoltato ieri sopraffare spesso la curva biancoverde non si sono ritrovate lì per magia, ma appartenevano a persone vere che avevano affrontato, nel migliore dei casi, circa venticinque ore di viaggio in pullman; sono voci che provengono da uomini che mostrano un chiaro spirito di abnegazione – non ultimo il sacrificio di tenere a sventolare una bandiera di alcuni metri quadrati senza soluzione di continuità per due ore – devoluto ad una causa che io non condivido, ma della quale si può tuttavia discutere. Un lavoro che porta loro a passare la gran parte del tempo con le spalle al campo, e me alla disperata ricerca dello spiraglio utile a non staccarvici gli occhi. Ma questa differenza, grande, non è tuttavia incommensurabile. Questo mi è parso di capirlo nei tanti momenti in cui ho abbracciato non so quanti sconosciuti con le mani tra i capelli per l’incredulità seguente la seconda rete di Hamsik; o quando io ed un tifoso a me vicino abbiamo gridato assieme a squarciagola alla volta di Britos, che si era avventurato ala, di rientrare subito nei ranghi, ché noi avevamo paura. In sostanza, ferma restando l’inviolabilità di principi inderogabili come il rispetto degli avversari, l’intollerabilità della violenza, la lotta a qualunque tipo di razzismo, le lingue, come i concetti, sono spesso diversi, ma il sostrato su cui questa diversità si manifesta è il campo di gioco. È il calcio, in ultima istanza. E ho avuto l’impressione che le nostre idee potessero rimanere diverse, opposte, ma non necessariamente puntare alla mutua dissoluzione. Di certo non fino a quando ci saranno dei calciatori su di un campo verde disposti a giocare e a farne la sintesi. E proprio in questa ottica, ritengo esemplare l’atteggiamento chiaro ed equilibrato dell’allenatore, che da una parte si dice irriducibilmente contrario alla violenza finanche verbale, fino a chiedere la giusta chiusura degli stadi, e dall’altra ha gli stessi tifosi come sacri destinatari ultimi dello spettacolo prodotto (e ieri, signori miei, abbiamo visto un match epocale).

I cori rotondi, gonfi, esaltanti che gli spettatori in tv hanno ascoltato deflagrare ieri sera a Wolfsburg sono anche frutto dello sforzo operoso di centinaia di uomini e donne che si muovono alla volta della squadra. Questo va loro concesso, specie perché quei cori sono durati due ore piene e sia Higuaìn che Hamsik hanno avuto una casa ideale, nel cuore della Bassa Sassonia, nella quale raccogliere ed esplodere la gioia nel primo tempo, proprio nel mezzo del coro che inneggiava ai figli del Vesuvio – che, sempre detto tra noi, è finalmente un canto che contiene tutta l’ironia che ci serve e di cui siamo capaci, per ricordare che se dobbiamo morire per mano del vulcano, come mezza Italia sportiva pare augurarsi, almeno vogliamo farlo godendo del lancio del Pipita al Capitano, proprio come Jerry Lee Lewis disse che se doveva finire all’inferno voleva almeno andarci suonando il suo pianoforte.

Ieri sera, a Wolfsburg, mentre tornavo verso Berlino sulle autostrade tedesche prive di limiti di velocità, che di notte somigliano a budelli oscuri arroventati dai pneumatici, ho capito che si fa più fatica a parlare con i pigri. Quelli che non vanno allo stadio perché è caro, e se non è caro è vecchio e scomodo e mal collegato, ed il merchandising della propria squadra è anch’esso caro, e se non è caro è volgare come la sua musica e poi questo arrangiamento non mi piace, e anche la pay tv a volte è cara e ah ma lo sai ci sono soluzioni alternative per vedere la partita in tv gratis. Questi pigri, avendo molto tempo libero, tendono a specializzarsi velocemente e scalano i posti in società fino a giungere alla meta agognata: commentatore sui social.

Ecco, da quelli, per esempio, gli occhiali non sarei disposto a farmeli sfilare.
Raniero Virgilio

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