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Il mio Torino-Napoli è Valentino Mazzola, l’abbraccio Sivori-Meroni e il gol di pugno di Paolino Pulici

Il mio Torino-Napoli è Valentino Mazzola, l’abbraccio Sivori-Meroni e il gol di pugno di Paolino Pulici

Quando mi capita di pensare alle sfide col Toro chissà perché mi ritornano in mente delle immagini che probabilmente mi porterò dentro tutta la vita. Sfide epiche, combattute, magari anche pareggi ma, se si pensa ai protagonisti scesi in campo in quelle occasioni, mai banali. Giocatori dalla personalità molto forte, dal carisma elevato, dotati di un sesto senso calcistico che appartiene solo alla galleria dei campioni. E non parliamo solo del Torino degli anni ’40 ma anche di squadre che arrivano idealmente ai gemelli del gol, a Pulici, Graziani o Claudio Sala che il Napoli cedette per fare cassa. Del resto il cuore granata non è fantasia dei giornali e nemmeno di tifosi spocchiosi, anzi la Storia con la maiuscola ci dice che, dopo i nostri amici genoani, il Torino è una squadra anche simpatica, almeno per chi scrive, se non altro per l’accesa rivalità cittadina che vede contrapposti i “gobbi” bianconeri ai figli, legittimi o meno, di Valentino Mazzola. Ma, beninteso, le simpatie finiscono un attimo prima del fischio di inizio della gara se dall’altra parte ci sono giovanotti con le maglie azzurre. Curiosamente le istantanee di una vita a seguire il pallone mi portano anche a delle riflessioni sull’attualità, il che dimostra come nel calcio ci sia sempre quel fil rouge che lega il passato e il presente in un turbinio di amori, tradimenti, gioie ed incazzature. Potrei partire dall’attualità e andare a ritroso nel tempo o viceversa, quindi, non cambierebbe molto la sostanza. È di quella sostanza di cui sono fatti i sogni (e il Calcio a volte lo è) che vogliamo discorrere in questa sede.

I QUARANTA. Ed allora la parte estrema di quel filo da riannodare inizia negli anni Quaranta e la mia memoria ritorna di colpo al Grande Torino, quello della squadra degli Invincibili, di Loik, Castigliano, Maroso, Bacigalupo, Gabetto e Mazzola che, ad un cenno del capitano (solitamente si alzava le maniche della maglietta), iniziavano a giocare e a mettere sotto gli avversari. Quello era un team che vinceva le partite quasi sempre con goleade, forse il pallottoliere fu inventato proprio allora, chissà. Ebbene il nostro ciucciariello di quegli anni, quello che usciva dalle macerie di una guerra dolorosa e lacerante e di una Napoli dove vi avevano anche bombardato lo stadio, affidato a Sentimenti II, Andreolo, Di Costanzo, Verrina, Pretto e l’albanese Lushta, sebbene vincesse il girone del Centro-Sud, quando andò allo scontro coi titani del Torino nel Girone finale le buscò di santa ragione. Beccò una doppietta di Gabetto in casa e un disarmante 7 a 1 a Torino. Povero Sentimenti II, dovette chinarsi sette volte nella propria porta per raccogliere il tiro al bersaglio degli uomini in maglia granata (rigorosamente di lanetta e con un grande scudetto tricolore sul petto). Ma quella partita disse che il divario tecnico-organizzativo col calcio del nord si era manifestato in tutta la sua ampiezza proprio in quella occasione. Solo due volte il Napoli riuscì a pareggiare col Grande Torino. Nel primo caso, nel dicembre del 1946, con reti di Andreolo e Busani e la seconda volta a reti inviolate, febbraio 1948, un anno prima della tragedia di Superga. Fu in entrambi i casi una specie di trionfo, il pubblico non smise di applaudire gli azzurri che bloccarono il “treno merci” granata con una prestazione maiuscola. In chiusura di questo excursus su una squadra leggendaria, forse il vero dream team di tutto il calcio italiano, vorrei ricordare le lacrime di Sandro Mazzola, cui va la nostra solidarietà, che in un’intervista dell’anno scorso non seppe trattenere lo sdegno per i beceri cori partiti dalla curva Scirea dello Juventus Stadium in occasione del derby della Mole. Una testimonianza di calcio vero, appassionato ma anche una presa di coscienza di come gli imbecilli frequentino, impuniti, curve di squadre titolate.


I SESSANTA. Altro giro altra corsa, sempre sul filo tra passato e presente. Credo che il fascino che abbia esercitato Gigi Meroni su un’intera generazione, quella degli anni ’60, del boom economico, dell’Italia ricca, del beat e dei juke box, non sia secondo a nessuno. Il cosiddetto “quinto Beatle”, cui tre anni fa la Rai dedicò una fiction e che è stato omaggiato con decine di libri (il più bello è senz’altro “La farfalla granata” di Nando Dalla Chiesa), esprimeva il calcio per quello che è, sostanzialmente un gioco. La sua anarchia in campo e fuori dal campo (non di rado lo si vedeva per le strade di Torino con una gallina al guinzaglio) era proverbiale, la sua fortuna in Nazionale fu tarpata solo dal fatto che non volle tagliarsi i capelli. Eh sì, lui era un capellone, uno vero, uno che sapeva giocare al pallone. Dribbling, profondità, tiro in porta, maglia sudata sempre, calzettoni perennemente abbassati. Gigi Meroni era così, un combattente nato, un uomo di un altro calcio. E quando al termine di Torino-Napoli del gennaio 1967 (0 a 0 per la cronaca), pochi mesi prima che venisse investito da un’auto e spirasse in ospedale a soli 25 anni, uscì dal campo abbracciato col nostro Omar Sivori, si celebrò una sorta di passaggio di consegne in quanto a genio e sregolatezza. Parve, in quella occasione, che il testimone del calcio geniale passasse dal Cabezon Sivori a Meroni. E lo dimostrano le foto di quella partita. E poi una riflessione su quello che dovrebbe essere questo meraviglioso sport: due fuoriclasse che escono dal terreno di gioco abbracciati e sorridenti. Vi immaginate oggi uscire dal campo Higuain e Quagliarella che si danno pacche sulla spalla? Ma manco a pensarlo, questi di oggi tirano diritto negli spogliatoi. E il calcio è forse un po’ più triste.

I SETTANTA. Terza istantanea, 16 novembre 1975, il Torino che vincerà lo scudetto dopo un testa a testa con la Juventus affronta il Napoli in una brumosa giornata di inizio inverno. E proprio quel giorno si consumò una delle più grande ingiustizie che io ricordi su un campo di calcio, un goal fatto col… pugno. Ebbene sì, dieci anni prima della mano de Dios di Maradona ai Mondiali messicani, Paolino Pulici bucò il nostro Carmignani con un clamoroso colpo da pallavolo. La partita iniziò con un gol di Pulici, poi pareggiò Savoldi con una zampata delle sue. Tre minuti dopo il pareggio ci fu la rete che cambiò il corso della gara. Pulici fece finta di buttarsi di testa ma colpì la palla clamorosamente col pugno. L’arbitro non vide così come non aveva visto un fallo da rigore su Braglia poco prima. L’autorete del puteolano Punziano fissò il punteggio sul 3 a 1 per i granata in un secondo tempo giocato quasi pro forma dagli azzurri di Vinicio. Che polemiche, però, una partita falsata al 101%. Tutti i giornali, e non poteva essere altrimenti, titolarono la verità e la moviola della Domenica Sportiva non potè che confermare. “Pulici come Piola: pugno da k.o.”, “Condanna firmata dall’arbitro”, “La tecnica del miglior Monzon”, “La giornata delle beffe”, “Il k.o. da un pugno di Pulici”, perfino Tuttosport dovette inchinarsi alla Verità. L’arbitro, per la cronaca, era Serafino di Roma, una palla di grasso che oggi non si vedrebbe neanche nei campionati minori della Basilicata. Basti ricordare che il giorno dopo i muri di Napoli erano tappezzati da manifesti in cui si diceva “È ora di finirla con la mafia calcistica!”. Oggi, con le decine di telecamere in campo, con arbitri dietro la porta, potrebbe accadere qualcosa del genere? Ai posteri l’ardua sentenza.
Davide Morgera 
(nella foto in copertina, la stretta di mano tra Pulici e l’arbitro Serafino al termine dell’incontro. Poi, dall’alto, un’immagine di Andreolo, Sivori e Meroni, e Il Calcio illustrato che parla di un Napoli Torino del 1948. Tutte dell’Archivio Morgera. Qui sotto, la sintesi di quel 3-1 col gol di mano di Pulici)



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