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Il linguaggio universale del calcio: dalla tragica foto sulla spiaggia di Gaza ai tatuaggi di Ibrahimovic

Il linguaggio universale del calcio: dalla tragica foto sulla spiaggia di Gaza ai tatuaggi di Ibrahimovic

Sono le quattro del pomeriggio sulla spiaggia di Al-Shati, altrimenti detto Beach Camp, il campo profughi sul bordo settentrionale della Striscia di Gaza che dà sul Mediterraneo. Dal mare arrivano due proiettili, a una manciata di secondi di distanza l’uno dall’altro. Nonostante avessero corso a perdifiato per tentare di scampare al pericolo che veniva dal cielo, quattro ragazzini muoiono sotto i colpi della guerra, e sotto gli occhi dei giornalisti che vivono nell’albergo prospiciente. Uno di loro, Tyler Hicks, fotografo del NYT, vincerà il premio World Press Photo per aver coraggiosamente raccontato, in una immagine sublime e straziante, la potenza dei corpi esanimi dei piccoli sulla spiaggia. È un pomeriggio dello scorso anno, non lontano dalle nostre coste. I quattro fanno parte della stessa famiglia, lo stesso nome – Bakr – e su quella sabbia stavano giocando a pallone. 

Ci vuole coraggio a scendere in spiaggia a scattare quel fotogramma. Ma ci vuole più coraggio ancora a correre a piedi nudi su quella sabbia liminare trasformata nell’«ultimo club di football ai margini della cornice», come recita la canzone Gaza Soccer Beach di Médine. È necessario sentire il richiamo dell’incoscienza del tempo dei bambini, ma anche il suo coraggio che proviene dal petto e tracima in un furore incontrollabile. A chi gli chiede come fosse possibile che i piccoli fossero fuori a rincorrersi, sulla spiaggia di una zona di guerra, un genitore risponderà che, semplicemente, volevano giocare a pallone e non sentivano ragioni. E la ragione del gioco del calcio sopisce la paura delle granate che piovono dall’ignoto. Non è fatalismo, è la certezza che quel richiamo abbia dignità più alta e umanità più profonda della paura.

I ragazzini che si arrangiano costretti nei campi profughi, quelli che vivono nei palazzi di Tel Aviv, i loro amici d’oltre mare sulle nostre coste, come quelli che passano i giorni in ogni altra latitudine, del calcio condividono i nomi. Se li scambiano come monete, li hanno resi vocaboli, li hanno inseriti in una grammatica universale, fino a rendere il calcio stesso un enorme linguaggio, il catino in cui questa struttura fitta di codici si intreccia sul mondo e ne veicola tutti i significati. Scelgono il proprio specifico giocatore e si allenano a perfezionare la riproduzione in scala delle sue gesta caratteristiche come un amanuense medievale imparava e ri-caratterizzava le sue lettere, stabilendo una loro sofisticata estetica. Cosi, ad esempio, Özil cessa di essere un banale cognome, per assumere il significato del campione del mondo tedesco, musulmano praticante, che proviene dalla Turchia e recita il Corano prima di entrare negli stadi roventi della Bundesliga. Indossare la maglia del centrocampista della Germania e riprodurne i dribbling significa accettare su di sé una storia. Questa storia. 

Il calcio, dunque, è un vero e proprio linguaggio. Richiede la conoscenza delle sue regole, fornisce una varietà di stilemi, e proprio come un italiano sente l’onore e la forza del privilegio di potersi esprimere trasformando la lingua di Dante e Montale, il giocatore, lo sportivo, il semplice tifoso devono apprestarsi a vivere la propria passione con la cura di chi entra in un vero tempio dell’umanità, nel quale quel linguaggio di moduli, di righe bianche, di ripartenze e spogliatoi, racchiude l’interezza delle storie degli uomini. Ne racchiude l’interezza dei nomi.

Sono sempre nomi, per la precisione quindici, quelli che Ibrahimovic ha mostrato tatuati sul suo torso, subito dopo aver segnato qualche settimana fa – con un classico colpo al limite delle leggi fisiche – la prima rete al Caen, ad appena due minuti dall’avvio. Con un interessante inversione, in un gioco degli specchi, il ragazzo di Malmö, nato da padre bosniaco e madre croata, evoca attraverso quindici nomi gli ottocento milioni che patiscono la fame. Ma anche lui è il suo nome e, nella sintassi del calcio, Zlatan, oltre a essere il titolo della sua autobiografia, definisce in modo sintetico un complesso approccio alla vita. Una radice contorta, una origine inabissata che conducono ad una inaspettata esplosione di potenza estetica. Usa il suo narcisismo smisurato (ammesso che ne possa esistere uno regolare) per farsi lui stesso elemento del linguaggio, diventando il suo stesso nome nel bel mezzo di una partita di calcio. È come se avessero tatuato quei termini sul corpo del Doriforo di Policleto, oggi esposto nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, tramutandolo in un meme.

Il calcio è un linguaggio, dunque. Ha la natura delle più profonde forze interiori, quelle che spingono i bambini sulla spiaggia di Gaza, ad ogni costo. E una vasta potenza espressiva che genera continuamente ramificazioni di significati. È un costante – e vivente – proliferare di nomi. Pochi, nella storia dell’uomo, hanno affrontato con meticolosità i fascinosi meandri dello studio del linguaggio come i mistici ebraici, che sullo studio dei segni, e dei limiti della loro espressività, hanno scritto pagine mirabili, rendendo lo studio stesso della lingua e dei suoi confini una dottrina. “Da sempre essi hanno avvertito nella lingua un abisso, una profondità, e si sono prefissi di misurarli, di attraversarli e di superarli” scrive G. Scholem nel libro “Il nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio”, edito da Adelphi. Questo abisso richiede il salto concettuale tra il giocatore che gioca semplicemente la sua palla e la storia di cui egli si fa inconsapevolmente portatore. In questo scarto tra simboli e significati si cela il nodo – che rimane, in ultima analisi, inspiegabile ma epico. 

Una domenica dello scorso settembre, sulla medesima spiaggia di Al-Shati, i membri della famiglia Bakr si sono ritrovati assieme ad alcune centinaia di persone, per commemorare i quattro ragazzini falcidiati dalle bombe qualche settima prima. A conclusione dell’evento, si è giocata una partita di calcio. O, meglio, si è conclusa quella brutalmente interrotta. La storia, d’altra parte, è il racconto dei nomi dei coraggiosi che non hanno avuto paura di giocare.
Raniero Virgilio
(la foto in alto è di Tyler Hicks, del NYT, che è tra i vincitori del World Press Photo) 

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