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Il rigore di Higuain è un romanzo che ti fa innamorare

Il rigore di Higuain è un romanzo che ti fa innamorare

Potremmo lasciar sfilare, sottacendole, tante cose di questa stagione calcistica. Ma il rigore di Higuain contro il Genoa non può passare senza un minimo di genuino senso di idolatria.

Al ventinovesimo minuto della ripresa, infatti, Higuain non calcia un rigore, ma stila e recita una dichiarazione di guerra alla banalità del prevedibile – quel prevedibile che, ormai da tempo, ammorba spesso il noiosissimo calcio italiano di cui gli stranieri dovrebbero, non si sa perché, diventare edotti. Il suo piede destro la palla la accarezza mentre la frusta, quasi la scucchiaia mentre la taglia con violenza, e la insacca solo a metà altezza alla sinistra dell’estremo difensore genoano. Il Nove napoletano, insomma, decide di collezionare e utilizzare tutti quanti gli ingredienti necessari a camminare, come un folle, sul filo della vertigine che, in uno battito di ciglia, ti rende semidivino o ti scaraventa in un abisso qualunque. E sa farlo come in un romanzo, con quella leggerezza figlia del senso della sfida e dell’incoscienza che sembra trovare, in quei cinque minuti, una sua assurda giustificazione.

Per noi, mortali, quei cinque minuti che trascorrono fra i passi lenti del centravanti che andrà a posizionare la sfera sul dischetto e la percezione del primissimo molle movimento della rete sono una angosciante agonia. Sono gli stessi cinque minuti durante i quali, lunedì sera, persino Maggio, suo compagno di squadra, fermo sulla tre quarti, le mani ai fianchi, immobile, ha dato le spalle al rigore dell’argentino. Non è riuscito a sostenere la visione di quei trecento secondi, in cui noi mortali non chiediamo altro che una esecuzione indolore, facile, ovvia, sicura, e perciò imprendibile, forte ma angolata, e che quello coi guantoni non la sfiori, insomma basta che si insacchi e non tremi nessun palo.

Ma l’idolo deve camminare sul filo dell’equilibrio, sul confine. Il suo compito è di mostrarlo agli spettatori, questo confine. L’idolo si ciba della loro paura, quella che lui quasi non sente. E rifugge le strade battute, le giocate già viste, la semplice vittoria. L’idolo deve farsi raccontare.

In un libro molto bello dal titolo Un giorno triste così felice, Lorenzo Iervolino racconta Socrates, un semidio del calcio vissuto qualche anno addietro. Poiché non poteva accontentarsi di essere parte di una azione, il giocatore brasiliano aveva l’usanza di firmarle con una sigla inconfondibile, il suo leggendario colpo di tacco. E quando finalmente qualcuno gli chiede che necessità ci sia, quale utilità abbia quella giocata che somiglia così tanto a un orpello ingombrante di cui ci si può disfare agevolmente (e forse italianisticamente), egli risponde: ”…un colpo imprevedibile, mai un colpo inutile, perché anche la bellezza è un bene necessario. Hanno detto tante cose, ma la verità è soltanto una: io colpivo la palla di tacco per farvi innamorare”.

Innamorare, prima ancora che vincere.
Raniero Virgilio

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