ilNapolista

A colloquio con Aida: «Parma e Napoli sono due città ripiegate sul passato»

A colloquio con Aida: «Parma e Napoli sono due città ripiegate sul passato»

Porta giusto un filo di trucco sulla pelle d’ambra. Non fuma più, mi dice che ha smesso e che si rimprovera di non esserci riuscita prima. L’appuntamento con Aida è in Galleria Umberto, durante tutto il tempo della nostra chiacchierata non smetterà mai di soffermarsi ogni tanto con lo sguardo su un dettaglio. Una volta sulla cupola, un’altra sulle colonne e i capitelli, poi sugli dei raffigurati nel soffitto del porticato. “Dopo andiamo al San Carlo?”, mi chiede Aida. Pensavo volesse passeggiare per via Verdi. Non glielo dico, è una battuta scema. Dopo aver visto il Diavolo milanista, questo è il giorno del mio incontro con il simbolo del Parma. Andremo insieme allo stadio. “Sai che quando sono venuta la prima volta a Napoli, nel 1873, per la prima Aida al San Carlo, questa Galleria non esisteva ancora? Lasciamela guardare ancora un po’”. Aida sa di calcio. Anche se volesse restarne fuori, non potrebbe. La sua marcia suona al Tardini prima di ogni partita. Il nostro dialogo sul calcio comincia proprio da questo aspetto.

Ciuccio. “Ho sempre pensato che se un giorno ti avessi incontrata, avrei voluto domandarti come hai vissuto, come vivi, questa appropriazione della tua musica da parte del calcio, che è un mondo parecchio distante dal tuo. Voglio chiederti se per te si tratta di un sopruso o di un avvenimento che vivi tutto sommato in modo neutro. Che effetto ti fa?”. 

Aida. “Un effetto bellissimo, anche se vedo che ti sorprendi. Ti giuro che è così. Non voglio recitare il ruolo della snob al contrario, ma considera che l’Aida è diventata popolare per certe sue esplosioni di scenografia musicale. Poche altre opere di Verdi, intendo del Verdi maturo, hanno così tante sfumature psicologiche. L’opera che porta il mio nome è una rappresentazione piena di verità e di sfumature, dalla messinscena delle masse alla solitudine dei singoli personaggi. L’esotismo, tutta questa esposizione di figure straniere, non fa che aggiungere un’aureola di mito. Pensaci un attimo. Non ti pare che sia il calcio, tutto questo?”. 

Ciuccio. “Parma però vive un momento particolare. A guardarla dall’esterno, fa impressione pensare che una delle province simbolo dell’Italia florida e benestante sia costretta ad affidare la propria squadra di calcio, il famoso giocattolo “gioiellino” dei Tanzi negli anni ’90, in mani straniere, misteriose, non ancora del tutto chiare”.

Aida. “Parma si sente oggi una città senza personalità e senz’anima, una città in cui il tempo felice non esiste più. Il crac Parmalat è stato una botta in testa, come diceva il povero Alberto Bevilacqua. Anche della sua voce avevamo tanto bisogno. Ma non vorrei recitare la parte della dama che rimugina sui bei tempi andati. Io penso che Parma alla fine sia sempre stata questa, nel calcio e fuori: una città che ha avuto un pessimo rapporto con il senso del limite. Ci siamo sempre sentiti così speciali, unici, da credere di poter esigere tutto, salvo svegliarsi un giorno e scoprire di non avere niente tra le mani. Non per un dispetto di qualcuno, ma perché era logico che andasse così”.

Ciuccio. “Quello che dici mi suona dentro come familiare, al punto che mi fai pensare ad un’affinità tra la percezione che il napoletano ha di sé e quella che di sé ha un parmigiano, pur nella differenza enorme che esiste tra una metropoli e una provincia”.

Aida. “È vero, lo penso anch’io. Le parole che dici me lo confermano ulteriormente. La tua idea che Napoli sia una metropoli è un altro segno di questo malinteso senso di grandezza. Metropoli sono Milano e Roma. Napoli è la più grande delle province italiane, non te ne avere a male. Non basta avere quasi un milione di abitanti per essere una metropoli. Metropolitani si è nella testa. Voi non avete quell’atteggiamento. Io vi guardo da lontano e faccio una grande fatica a capirvi. Un giorno un quotidiano inglese scrive che la vostra città è meravigliosa, che è un balcone affacciato sul paradiso e altre parole che sembrano uscite da un libretto melodrammatico di Ghislanzoni. Penso che allora siate felici. In realtà qualcuno lo è. Poi scopro che altri si arrabbiano e si indignano, invitano il giornalista a farsi un giro in città per vedere in che stato è ridotta, la buche in strada, le periferie abbandonate, i luoghi della cultura malmessi, le piazze della droga e altre cose che conosci meglio di me. La settimana dopo lo stesso quotidiano riferisce che un calciatore inglese, un certo Welbeck che non conosco, è stato contattato dal Napoli, squadra della città, così scrive, in cui prospera la camorra, e allora parte il nuovo giro di indignazione, stavolta di segno opposto, stavolta invitando il giornalista a farsi un giro in città per vedere le sue meraviglie, il terrazzo sul paradiso, le canzoni, dduje viecchie prufessure ‘e cuncertino e via così. Tutto questo io lo trovo molto provinciale. Decidete cosa siete, cosa volete essere, come volete rappresentarvi, come vi aspettate di essere rappresentati. Non potete essere fieri e citare con orgoglio i giornali inglesi quando indicano la stazione metro di Toledo come la più bella del mondo, per poi risentirvi con gli stessi giornali inglesi quando ricordano che a Napoli esiste una densità criminale di una certa rilevanza. A me pare che Napoli sia una città alla perenne ricerca di sé, e solo di sé”.

Ciuccio. “Esiste forse in noi napoletani, Aida, un fastidio a sentirci giudicati. È figlio di una storia secolare con cui non ti voglio annoiare adesso, per cui siamo bravissimi a dir male di noi stessi, ma non vogliamo che lo facciano altri, specialmente se li percepiamo come estranei. Pensa che precludiamo ogni giudizio sulla città finanche ai napoletani che se ne sono andati, gli abbiamo tolto il diritto di intervento sulle cose e sul destino della città. Ovviamente vedono la città in modo diverso da noi che siamo rimasti. Forse per questo la loro condizione di mutismo è per noi la più gradita”. 

Aida. “E tu credi che tutto questo non abbia riflessi anche sul calcio, sulla maniera di viverlo, di seguirlo? Sia Napoli sia Parma sono due città ripiegate sul passato, su un passato di gloria presunta. Voi fantasticate con i Borbone, noi sul mito di Maria Luigia, sul mito della vecchia capitale. Con il rischio di non farsi trovare pronti alle trasformazioni, prima quella dell’industria produttiva e poi quella delle nuove tecnologie. Te lo ripeto: non credo che sia un atteggiamento odierno, parlando per Parma credo che sia stato sempre così. Anche trent’anni fa, anche vent’anni fa, periodo che oggi ci pare d’oro. C’è sempre stato alla base dei guai il senso di una nostra diversità, una specificità che nasce dalla posizione geografica: la via Emilia, a metà strada fra Bologna e Milano, il corridoio Tirreno-Brennero. Tutte cose che ci hanno fatto sentire unici nella nostra condizione di provincia, racchiusa in una frase magica: Parma, a misura d’uomo. Apro una parentesi. Non per recitare la parte della vetero-femminista, ma non ho mai capito perché, quando si vuole parlare di una città ideale, si dica a misura d’uomo. Forse che una città a misura di donna sia più deplorevole? Ma andiamo avanti. Ti dicevo di Parma trent’anni fa. Non era così immacolata, la vita. Venivamo dallo scandalo edilizio del ’75 con tanti arresti eccellenti, emergeva già un disagio giovanile esploso poi con due omicidi che hanno fatto storia nella cronaca cittadina, nel ’79 e nell’83, con un sedicenne ucciso da cinque coetanei. Soprattutto, nasceva la prima giunta di pentapartito che mandava all’opposizione il Pci dopo cinquant’anni. Ma perché ti sto raccontando tutto questo?”.

Ciuccio. “Continua, ti prego, mi interessa. Stiamo cercando di capire il rapporto delle nostre città con il senso del limite. Stai parlando di trent’anni fa, quando Napoli invece limiti non ne aveva più, aveva Maradona. Quell’epoca secondo me ha viziato ogni visione di noi stessi. È stata una meravigliosa e irripetibile parentesi che invece viviamo nei ricordi come un momento normale, un qualunque passaggio della storia. Era un regalo degli dei del calcio e noi lo consideriamo come un atto dovuto. Non voglio dire che non si possa tornare mai più a vincere un campionato, dico che in 90 anni ci siamo riusciti solo con il più grande calciatore di tutti i tempi. Mi domando perché, mi domando se c’è una responsabilità della città”.

Aida. “Le ambizioni sono legittime, i sogni pure. Non so dirti per Napoli, ma penso che Parma, e il Parma, sono andate a schiantarsi ogni volta che hanno cominciato a esigere. Guarda cosa è successo con i trasporti. Qualche decennio fa Parma era consapevole della necessità di nuovi collegamenti. La città viveva un senso di chiusura e allo stesso tempo di onnipotenza, era una città in cui contava avere amicizie importanti. Abbiamo pagato la pretesa di poter inseguire tutto, dalla Stazione Mediopadana dei treni all’aeroporto, al doppio collegamento Pontremolese ferrovia-autostrada. Abbiamo pagato le nostre ambizioni. È finita che Reggio Emilia ci ha scippato la fermata della Tav. Ci siamo sentiti defraudati e, come diceva Bevilacqua, in città si è fatto largo uno spirito ribelle, estremo, che ha avuto un approdo preciso anche in politica. Nel calcio volevamo lo scudetto e siamo falliti. Volevamo l’Europa l’estate scorsa e probabilmente andremo in serie B. Bisogna sapere cosa si desidera, i desideri sono pericolosi. Io desideravo l’amore ed è finita com’è finita”. 

Ciuccio. “Sei più pessimista finanche di me. Tu poi disegni i contorni di una società quasi obbligatoriamente verghiana, dove non c’è possibilità di scalata per gli umili. Io a tanto non arrivo, te lo confesso”.

Aida. “Ma tu sei più giovane di me. Io negli anni di Verga ci sono nata, per me ragionare in quei termini è abbastanza naturale, magari ho torto io, queste sono solo le mie convinzioni, le piccole convinzioni di una principessa a cui le cose non sono andate come lei voleva. Ho pagato sulla mia pelle la manipolazione dei sentimenti, ho conosciuto la gravità delle ragioni della storia, la ragion di Stato, cosa significa restarne travolti. Il mio è il dolore dei vinti”. 

Ciuccio. “Ti chiedo un’ultima cosa, poi ti accompagno al San Carlo come ti avevo promesso. Conosci la canzone di Rino Gaetano che porta il tuo nome?”.

Aida. “Certo che la conosco, cosa credi che io non segua la musica leggera? Aida, come sei bella. E poi cita anche l’Egitto. È una canzone che mi commuove. Ogni tanto la canto fra me e me. Vedi, Ciuccio, l’originalità, anche quando non è genialità, vorrei dire la peculiarità di sé, l’identità, quando l’hai trovata, va vissuta e difesa. Anche se ti porta da un’altra parte rispetto allo Zeitgeist, allo spirito del tempo. Quando Verdi mi scrive – non che mi abbia mai mandato lettere, intendo quando mi scrive, quando mi compone, quando compone Aida – quando Verdi mi scrive, l’Europa si sta facendo affascinare da Wagner, il quale prova a imporre il suo tratto. Verdi invece cosa fa? Resta fedele al proprio e scrive Aida. Noi siamo questi, tu che cosa ci vuoi fare?”.
Il Ciuccio

ilnapolista © riproduzione riservata