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«All’estero i giovani calciatori si allenano di più. Benitez? Lo ricordo alle giovanili del Real, il suo Napoli corre»

«All’estero i giovani calciatori si allenano di più. Benitez? Lo ricordo alle giovanili del Real, il suo Napoli corre»

La crisi d’identità del nostro calcio si è cristallizzata in un ritardo che i confronti con le Nazionali e i top club europei denunciano con puntuale chiarezza. I problemi e le soluzioni per salvare il pallone in Italia sembrano risiedere nei settori giovanili, in quelle incubatrici che non riescono più a esprimere grandi talenti per ragioni di ordine fisico, tecnico-tattico e organizzativo. Ma soprattutto culturale. Ne è convinto il presidente dell’Associazione italiana preparatori atletici di calcio (Aipac), Stefano Fiorini, che in questo colloquio con Il Napolista indica dal suo punto di osservazione privilegiato alcuni dei motivi che hanno portato al ridimensionamento del calcio italiano, partendo dai limiti della preparazione atletica: «In Italia si dà poco spazio alla parte volitiva, di entusiasmo, di partecipazione, della corsa. Non tanto perché ci si allena poco e male, quanto perché curando troppo i particolari si perde un po’ la visione d’insieme. Quindi si va in campo e si sta attenti a guardare la posizione del piede, la posizione del giocatore riferita all’avversario, alla corsa e alla palla, invece di pensare che prima si corre, prima si gioca e poi si correggono i particolari. Questo si vede tutte le volte che ci si confronta con squadre straniere e andiamo in difficoltà, perché gli altri praticano un calcio più voluminoso in termini di quantità di azioni, di corsa, di partecipazione alla gara e noi facciamo fatica a reggere i loro ritmi. Al di là dei concetti singoli o della preparazione dei nostri tecnici e dei nostri preparatori, è un fatto proprio di cultura di sistema. La quantità di allenamento che proponiamo ai nostri ragazzi dei settori giovanili è pari al cinquanta/sessanta percento di quella degli altri paesi. Tra noi e gli altri c’è un gap di vent’anni che viene evidenziato in maniera significativa».

Quanto è cambiata la preparazione atletica delle squadre di calcio in Italia negli ultimi vent’anni con l’intensificarsi degli appuntamenti, delle competizioni, del numero di partite da disputare?
«La preparazione di gara è cambiata tantissimo. Tra la fine degli anni Ottanta e tutti gli anni Novanta era esasperata la parte della preparazione fisica, a discapito della parte tecnico-tattica. Oggi siamo arrivati all’eccesso opposto, nel senso che si esaspera la parte tecnico-tattica, la parte con la palla. Però se non si raggiungono volumi e intensità adeguati nel lavoro con la palla, ci si allena sottodimensionati. Siamo passati da un eccesso all’altro. Negli ultimi venti anni è cambiata completamente la preparazione. Io, che quell’epoca l’ho attraversata quasi tutta, oggi rivedo criticamente quel che facevamo».

Qual è la ricetta di una preparazione che protrae i suoi effetti lungo l’intero arco della stagione agonistica?  
«La ricetta ottimale è integrare il più possibile, nella maniera più precisa possibile, il lavoro tecnico-tattico con il lavoro di preparazione fisica inteso nel senso più ampio del termine. La preparazione fisica non è solo quella “performante”, cioè quella che migliora la prestazione del calciatore in alcuni aspetti, ma anche quella che si occupa del benessere dell’atleta. Se un calciatore sta bene fisicamente, rende di più anche con la palla. E questo va al di là dell’ora e mezza o due ore di allenamento quotidiano. Faccio un esempio: un attore, un cantante o un pianista dedicano molte più ore della giornata alla cura del proprio corpo e all’allenamento fisico piuttosto che alla prestazione specifica. Questo, in un discorso più ampio, dovrebbe valere anche per il calciatore, tant’è vero che oggi molte squadre iniziano a stare in gruppo dalla colazione al centro sportivo per poi proseguire con l’allenamento, il pranzo insieme, per fare in modo che il calciatore rimanga al centro sportivo più ore nell’arco della giornata. In questo modo, oltre all’allenamento finalizzato alla partita, potrà mettere a punto gli altri aspetti che completano la preparazione. Credo che per crescere molto servano l’intensità e il volume dell’allenamento, al di là di una ripetuta sui cento metri o delle partitelle a pressione».

Quali componenti metodologiche determinano la differenza di passo tra le nostre squadre e quelle europee?
«L’anno scorso noi dell’Aipac siamo andati a visitare le strutture di alcune società di calcio straniere e abbiamo incentrato la nostra attività sull’analisi dei settori giovanili. Ci siamo resi conto che non è tanto nella singola esercitazione, nella singola proposta, che si differenziano in meglio o in peggio. Nessuno ci insegna qualcosa nel singolo aspetto. È un discorso molto più ampio. I giovani dello Standard Liegi, per esempio, si sottopongono a sette, otto o nove allenamenti a settimana. I nostri calciatori, di squadre anche importanti di Serie A come Inter, Fiorentina e Milan, fanno quattro o cinque allenamenti settimanali. I calciatori dello Standard Liegi hanno a disposizione un centro sportivo con quindici campi, palestre, piscine, aule studio per i ragazzi, in modo che ci sia la minore dispersione di tempo possibile».

Una realtà lontana anni luce dalla nostra…
«Qui i nostri giovani, quando va bene, si allenano un’ora e mezza al giorno per tre o quattro volte a settimana. È proprio un discorso di impostazione. Non a caso ho citato lo Standard Liegi, perché il Belgio non è una delle nazioni più evolute in campo calcistico. È, però, un Paese che sta lavorando molto bene con i ragazzi del settore giovanile, tant’è vero che l’Anderlecht negli ultimi anni al Torneo di Viareggio si è presentato sempre con ottime squadre. Al Mondiale hanno fatto la loro buona figura con una delle rose, credo, più giovani in assoluto. C’è un lavoro a monte: si parte dalle strutture e dalla valorizzazione dei tecnici. I tecnici dei settori giovanili stranieri sono professionisti a trecentosessanta gradi. Qui in Italia sono pochi i tecnici o i preparatori dei settori giovanili che riescono a dedicarsi tutto il giorno alla professione, perché gli stipendi o i rimborsi non sono sufficienti per raggiungere una piena autonomia, una qualità di vita soddisfacente. Spesso e volentieri si tratta di un doppio lavoro e anche questo toglie tempo ai nostri ragazzi. Il discorso è prettamente culturale. Purtroppo in Italia, negli ultimi vent’anni, abbiamo investito poco nei giovani e nelle strutture e ora si raccoglie quel poco che abbiamo seminato».

Questi discorsi valgono anche per le prime squadre?
«No. Se a livello di settore giovanile dobbiamo ancora crescere molto, per le prime squadre il discorso è un po’ diverso, anche perché ci sono calciatori che provengono da più culture, le squadre sono multietniche e quindi non è un ambito in cui si può veramente incidere nel lungo periodo come per il settore giovanile. Oggi le nostre prime squadre, per organizzazione del lavoro, hanno raggiunto uno standard apprezzabile. Quel che manca nel nostro Paese è la materia prima: i giovani calciatori di buon livello. E non è che non ne nascano più in Italia: la prima cosa che un ragazzino in età scolare fa, nove volte su dieci, è giocare a calcio. Però è mancata, negli ultimi anni, la capacità di farli crescere e aiutarli a maturare nella maniera corretta».

L’allenatore del Napoli, Rafa Benitez, è uno che dà molta importanza all’aspetto di sistema. Infatti ha più volte ribadito la centralità delle strutture in un progetto di crescita.
«Benitez è un uomo di mondo, ha vissuto la realtà dei più grandi club europei, quindi sicuramente sa cosa ci vuole per far crescere la società calcistica sotto tutti i punti di vista. Lui, non a caso, ha iniziato ad allenare nel settore giovanile del Real Madrid. Ricordo di averci giocato contro con gli allievi della Fiorentina nei tornei internazionali a cavallo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta. È uno che ha fatto la gavetta, che conosce tutti gli aspetti del calcio e quindi sicuramente quello che dice non è casuale».

A proposito di Benitez, lui privilegia molto il lavoro con il pallone e per questo è stato visto con sospetto. Quale giudizio si sente di dare in merito a questo discorso?
«Non è un problema di allenarsi con o senza palla, ma di allenarsi rispettando quelli che sono i criteri e i principi dell’allenamento sportivo: volume e intensità. Se uno di questi due parametri viene meno scade per forza l’allenamento. Che poi uno privilegi un sistema rispetto a un altro – la palla o la corsa – conta poco. Io sono convinto che più si gioca con la palla e meglio è. Però se si gioca con la palla a ritmi ridotti, poi quando si arriva in gara non si è pronti ad affrontare le situazioni che si presentano nell’arco dei novanta minuti di gioco. Se si rispettano i principi fondamentali dell’allenamento sportivo, usare la palla non è in assoluto sbagliato, l’importante è usarla bene».

Come giudica, da osservatore esterno, la preparazione atletica del Napoli?
«Ho visto la partita a Firenze e mi ha fatto una buona impressione. Mi è sembrata una squadra in salute, viva, presente, contro la Fiorentina che è una squadra importante. La partita è stata di ottimo livello, con due squadre che hanno evidenziato un buono stato di forma. Da tifoso viola avrei preferito che vincesse la Fiorentina, ma fa parte del gioco. Però, ecco, è stata una partita di buon livello sotto tutti i punti di vista, anche a livello fisico. È stata una partita di buon ritmo».

Quanto è importante lo staff medico nel lavoro di supporto al preparatore?
«È fondamentale, la sinergia deve essere assoluta. La collaborazione deve essere quotidiana e si deve collaborare non soltanto nel momento dell’infortunio ma anche quando si tratta di lavorare per evitare di incappare in un infortunio, di dare benessere al calciatore al di là della performance, dall’alimentazione agli aspetti preventivi fino al recupero post gara, soprattutto nell’ottica dei tanti impegni ravvicinati del calcio di oggi. Sono aspetti fondamentali che non possono essere legati soltanto alla figura del preparatore o dello staff di preparatori ma devono coinvolgere obbligatoriamente figure sanitarie e parasanitarie. Il tutto deve essere concertato e costruito insieme».
Francesco Ruoppolo  

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