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Benitez, un marziano protestante che non aveva fatto i conti con la forza distruttrice di Napoli

Benitez, un marziano protestante che non aveva fatto i conti con la forza distruttrice di Napoli

Poniamo che l’arbitraccio toccato alla Roma fosse toccato al Napoli, che a perdere quella partita e con quelle modalità fosse stata la nostra squadra, poniamo che al posto di Rudy Garcia ci fosse stato Rafa Benitez. 

Come sarebbe stato il dopo partita?

Meno fragoroso in ogni caso. E non soltanto perché l’influenza della Roma nei media e nella politica è di gran lunga superiore alla nostra – banalmente, è pieno di romanisti là dentro, dai giornalisti a direttori, dagli editorialisti ai ministri fino agli ex presidenti del Consiglio e nessuno di loro si vergogna di prendere posizione e difendere la sua squadra – ma anche perché si sarebbe comportato in modo diverso l’allenatore del Napoli. 

Il tecnico romanista è stato anche in questa occasione un perfetto “Maestro” in senso musicale. Ha dato pochi e chiari cenni al coro e all’orchestra, che hanno suonato per due giorni sul suo spartito con ogni voce e strumento. Ma sul contenuto della musica nessun dubbio: protesta e lamento all’italiana, dettati da un grandetecnico che si è dimostrato anche un abile politico. O un gran demagogo.

Che cosa avrebbe fatto Rafael Benitez al posto di Garcia? In realtà lo sappiamo. Quasi niente. Quello che fece l’anno scorso dopo il gol in fuori gioco per ventuno centimetri, quello di Llorente, che diede dopo pochissimi minuti la piega negativa alla nostra partita di Torino. Rafa avrebbe preferito, come allora, parlare di cose, di giocatori, di calcio giocato, di occasioni perse o sfruttate. 

Perché è scemo, subalterno, senza “attributi” inadatto al calcio italiano, disadattato, drop out, testardo, chiuso, un pallone gonfiato senza polso? 

Forse non è così. Forse – anzi no: certamente – questo è lo stile dell’uomo: sobrio, professionale, fattuale, lontano da qualsiasi rissa “ideologica”, alieno dalla crociata. Non c’è davvero bisogno di molto per capire il suo metodo: dopo la partita il calcio è fatto di statistiche, di numeri, di errori da correggere, di valutazione di ciò che si è fatto, di gestione degli atleti, che significa dare fiducia: anche che in tre giorni di vacanza non ci si scòfanino tre chili di pasta. Dare fiducia a chi è bersagliato, recuperare chi è giù di corda o ai margini – ma ve lo ricordate che cosa dicevano, tutti, di Federico Fernandez un anno fa? E non sta succedendo lo stesso con Gargano e con Zuniga? E con Insigne, difeso nel momento del linciaggio, criticato con moderazione nella sera del gol e del riscatto? (“Deve migliorare, deve lavorare, essere più preciso”). Questa è capacità di gestione degli uomini.

Ma questo marziano “protestante” a Napoli, quest’uomo serio, che secondo noi ci serviva come il pane, adesso sembra davvero non essere più quello di prima. Sembra aver deciso qualcosa sul suo futuro (ma noi continuiamo a sperare che sia solo cattivo umore).

Il punto è che lo stile-Rafa non è passato e non è soltanto questione di centri sportivi, di reclutamento e scout di giovani. Rafa non ha avuto paura della “città derelitta”, come la definisce il maestro Carratelli, e del suo malessere. Lo ha affrontato, sarà solo il caso di ricordare che lui ci mette sempre la faccia. 

Ciò che non aveva calcolato era la virulenza culturale di quel malessere, il suo essere mentalità.

Quest’oggi in qualche pezzo della critica riaffiora la polemica sulle vacanze, sulla preparazione molle, sul lungo ponte di tre giorni che Rafa concede ai calciatori non convocati nelle nazionali. Che ci volete fare? Napoli ha una produzione di Masanielli che neanche le matrioske in Russia, e quando gli capita il tipo umano dell’uomo serio, che lavora sui fatti, che pensa a risolvere i problemi, allora lo esaspera con i toni accesi, lo punzecchia con sarcasmo da caserma che arriva all’insulto fisico, lo sferza con amarezza eduardiana (nel senso di De Filippo) contro il potere assente e cinico, pregustando un fallimento e un abbandono che sarebbe la conferma della propria forza distruttrice.

La gioia di questa cultura è in fin dei conti il De Laurentiis maleducato, che se ne va in motorino da uno studio tv, che dice la parolacce, che fa l’uomo da suk. È la conferma dello stereotipo del napoletano fuori dalla regole. Allora sì, ci sentiamo realizzati, siamo finalmente nel ruolo dell’eccezionalismo napoletano, del folclore, a quel punto ci sentiamo “noi” e con gioia possiamo dire: “Pappone!”, magari con parole più adatte a un salotto buono ma siamo sempre là. Uà, che senso di liberazione, che piacere. Torniamo alla nostra identità preferita. 

Rafa è  invece un granello di sabbia nell’automatismo della nostra autorappresentazione, perché la sua parabola napoletana si poteva raccontare anche in un altro modo. La sua vicenda qui da noi poteva segnare la riforma di costume e di mentalità del calcio italiano, grazie a un grande tecnico che misura le parole e sa “mettere a posto” un avversario autorevole come Sacchi con una frase da gentiluomo. Poteva venire da Napoli quell’abbassamento di toni e di stile del quale si parla dal 3 maggio, che ancora una volta in queste ore, non si è saputo trovare, neanche nella splendida classe dirigente del Nord. Potevamo essere l’avanguardia dello stile. Figuriamoci, ci è venuta le vertigine del vuoto.
Vittorio Zambardino

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