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L’importanza di Benitez per Napoli e il Napoli

L’importanza di Benitez per Napoli e il Napoli

Si respira e quando si respira si ragiona. Ragioniamo. C’è una domanda che galleggia intorno a noi da ieri sera, dopo la vittoria al 95′ a Marassi. Possibile che Zuniga e Inler non fossero in forma mercoledì per Bilbao e domenica a Genova sì? Questa domanda sottintende una risposta: impossibile. La risposta porta con sé una sentenza: Benitez ha sbagliato a Bilbao.  

Bilbao. Rischia di diventare l’ossessione di un anno. Ma poiché si respira, ragioniamo. Intanto partendo da Genova. L’assist finale con cross di Zuniga ha nascosto le sue difficoltà durate quasi tutta la partita, quando Perotti lo prendeva in velocità. Segno, questo, di una condizione ancora approssimativa, una condizione che 4 giorni fa era evidentemente peggiore se Benitez gli ha preferito prima Ghoulam e poi Britos quando l’algerino si è rotto il braccio. Su Britos terzino Benitez ha lavorato tutta l’estate, da quando si è reso conto che i nazionali sarebbero tornati dai mondiali scarichi. Stessa cosa fatta a centrocampo con Gargano, al Mondiale pure lui, ma con una struttura fisica che gli consente di entrare in condizione prima del potente Inler. Un Inler che a Genova ha fatto cose decenti solo quando il Genoa era sulle gambe afflosciato.

Il Napoli non si è afflosciato. Ha vinto al 95′ e come contro l’Athletic all’andata è cresciuto nel finale. Allarmi fisici non ne vedo e dopo aver visto Zuniga e Inler ieri sera resto convinto che a Bilbao non fossero in grado di giocare titolari. Semmai l’errore di Benitez in Spagna è stato mettere Mertens dall’inizio, giocatore che per quanto mi riguarda a certi livelli è letale soprattutto se entra al 60′.

Ma questi, tutti, sono dettagli. Benitez può sbagliare una formazione, un cambio (ieri li ha azzeccati tutti), una scelta. Quello che Benitez porta al Napoli è infinitamente di più, come si registra ogni volta che prova a fare discorsi sul sistema calcio. Benitez porta il Napoli fuori dalle secche del piccolo mercato italianuzzo, attirando giocatori che altrimenti non verrebbero, nonostante i frutti di mare che abbiamo, il sole a Nerano e le canzoni di Peppino di Capri. Se abbiamo potuto avere Higuain e Reina, se abbiamo potuto scoprire Callejon, se abbiamo potuto parlare con Mascherano, si deve a lui, alla dimensione Benitez. Certo, Mascherano non è venuto, ma è anche vero che non è andato altrove ed è rimasto dov’era, un posto che si chiama Barcellona e che poco non è.

Benitez è l’allenatore che ha fatto più spendere De Laurentiis, convincendolo della sua idea di calcio. Benitez è il primo allenatore in dieci anni che insiste sulla necessità di dotarsi di un centro sportivo e di uscire dalla magnifica liquidità di una società senza patrimonio immobiliare. Benitez è la sola via immaginabile per tenere De Laurentiis dentro un percorso di crescita progressiva. Progressiva vuol dire un po’ per volta, significa accettare un terzo posto quando immaginavi (chissà perché) di essere primo, significa accettare un pareggio alla prima giornata senza fare i drammi che stanno facendo all’Inter. “Ci avrebbero dato già in serie B”.

Lavoro e pazienza portano con sé il desiderio di vincere. Il desiderio, non la pretesa. Vorremmo vincere, non devi vincere. Prima persona plurale al condizionale e non seconda persona all’imperativo. Ehi tu, devi vincere. Spalla a spalla, l’ha detto benissimo Benitez. Un clima di un certo tipo condiziona i risultati. Con l’aria che c’è oggi, un terzo posto sarebbe un miracolo. Ma senza Benitez, perfino senza un Benitez che ogni tanto può sbagliare qualcosa, avremo la monocrazia societaria. Ma lui è aziendalista, sento dire, l’ho finanche letto su un illustre quotidiano. Certo. Ci mancherebbe altro. L’aziendalismo non è eresia. È ragionare con la testa e con la tasca dell’azienda che ti offre un contratto, senza rinunciare a vederne i limiti e i difetti, senza smettere di sforzarsi in privato per correggerli.

Aziendalista Benitez lo è per abitudine, in Inghilterra faceva il manager, ci mancherebbe che un manager non facesse gli interessi della sua azienda. Poi ci sono i conflitti interni. C’è quella guerra fredda che il Napolista vi ha raccontato un mese fa. Deve dimettersi per questo? L’Italia è uno strano Paese che ha maturato il totem delle dimissioni. Quelle di Prandelli, per dirne una, sono state più simili a una fuga. Nelle difficoltà si fa anche la scelta di restare al proprio posto per risolverle. È altrettanto nobile e magari 4 giorni dopo si vince a Genova. Se solo sapessimo aspettare la fine del viaggio, prima di dirci se in fondo valeva la pena partire.
Il Ciuccio

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